“Non può dubitarsi del nesso causale fra l’attività di assunzione di tabacco” da parte di un impiegato stroncato a 54 anni da un tumore ai polmoni e che ha fumato in una quarantina d’anni “quasi un milione di sigarette” – in media un pacchetto e mezzo al giorno – “e l’evento morte”. E’ quanto ha sostenuto oggi il giudice civile milanese Stefania Illarietti in una sentenza con cui ha condannato la British American Tobacco spa (già Ente Tabacchi spa) a un risarcimento di poco meno un milione di euro, compresi gli interessi, le spese legali e finanche il costo del funerale, ai familiari dell’uomo. Una sentenza epocale, che cambia completamente l’approccio giuridico al problema dei fumatori e della loro dipendenza indotta dalle aziende produttrici di sigarette.
Il provvedimento storico, che è già esecutivo, si fonda su una sentenza con cui la Cassazione aveva inquadrato la “attività di commercializzazione e produzione” di sigarette come “pericolosa”, su una consulenza tecnica disposta dal tribunale e anche sul fatto che prima del 1991, quando è diventato obbligatorio per legge, sui pacchetti di sigarette non compariva ancora l’avvertenza dei danni provocati dal fumo e del “rischio cancerogeno”.
Anche in America la tendenza sembra la stessa. Qualche giorno fa, un tribunale della Florida ha stabilito che la R.J. Reynolds Tobacco Company dovrà versare 23,6 miliardi di dollari di “danni punitivi” alla vedova di un uomo morto di cancro ai polmoni 18 anni fa. Si tratta della somma più alta mai fissata da una corte della Florida in una causa intentata da un singolo.
Dopo anni di lotta contro il fumo di sigarette, sembra finalmente di essere arrivati a un metodo producente. Dopo aver messo avvisi e foto terribili su tutti i pacchetti, aver tolto il logo sugli stessi e aver vietato il fumo in tutti i luoghi pubblici, si è giunti a una conclusione: far pagare i danni che provocano. Potranno i soldi fermare le grandi aziende del tabacco? Ci godremo la scena fumandoci sopra.